Generazione in rovina: Società. Autrce: Elisabetta Rappuoli

Rene+Magritte+-+Golconda+

Generazione in rovina

Viviamo in una generazione di incoerenti. Quelli che si proclamano diversi ma che poi indossano vestiti seguendo la moda e imitano la massa solo perché “lo fanno tutti”. Siamo una generazione di codardi, che usa mezzi termini, si serve di mezzi impropri, indiretti, nascosti, che prova mezze emozioni per paura di vivere condizionati dalla reputazione. La reputazione che metti in gioco quando decidi di metterti in evidenza nella massa; così te ne crei una buona, ma chi decide di essere se stesso poche volte è apprezzato. La personalità è vista come diversità, non come sincerità, siamo circondati e noi stessi facciamo parte di un sistema impossibile da cambiare, dove tutto va al contrario. Il mondo di un domani sarà in mano a falsi diversi, codardi incoerenti, perché i “se stessi” sinceri e coerenti saranno emarginati, macchie della società, poveri pensanti, gli unici con il coraggio di dire ciò che pensano, ciò che provano, gli unici in grado di capire ciò che vedono. Ancora una volta in generazioni cicliche il mondo sarà ingiusto, così sarà per sempre, perché chi ha il potere delle nostre teste si impegna nel far si che i nostri cervelli non si nutrano di sapienza, ma di modelli, perché un popolo di pecore è più facile da ingannare.

Elisabetta Rappuoli

Il Pianto: Riflessioni. Autrice: Elisabetta Rappuoli

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Il Pianto

Hai presente quel vuoto dentro quando hai finito di piangere? Quando l’umidità delle lacrime ti rimbomba nella testa vuota e nei polmoni deboli… vorresti riempire quel vuoto e cercare di aprire le finestre per far andare via l’umidità. Ma come si aprono le finestre? Come si riempie un vuoto?… niente di tutto questo è facile come sembra, soprattutto perché ognuno ha un suo modo di farlo, perché per aprire ogni finestra serve una combinazione di emozioni e condizioni sia fisiche sia morali diverse in tutti. Il vuoto spesso si colma in modo sbagliato, con il cibo, con la rabbia, con altro pianto, ma questo serve solo per amplificare la cassa di risonanza all’eco triste che continua a rimandarti il suono delle lacrime, cadere, una dopo l’altra, nel grande lago delle lacrime versate. Ti ritorna la voglia di piangere, le palpebre pizzicano, gli occhi si bagnano, la fronte si contrae, le mani si freddano… avverti dei brividi lungo la schiena e la prima liberatoria lacrima scorre su una guancia arrivando all’angolo della bocca prima che tu possa fermarla. Riapre ogni spazio che si era ritratto dall’eco, riallarga la stanza piena di umidità che avevi nello stomaco, i polmoni sembrano congelarsi a ogni respiro, potresti morire a un solo singhiozzo più forte

Elisabetta Rappuoli

LA SESTA: Riflessioni. Autrice: Bianca Gabbrielli

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LA SESTA

Sto sognando. Sì, sto sognando.
Sono stata un’essenza annegata per cento lunghe settimane in un mare di morte, di nero, di malattia, di sonni strappati e tormentati. Ho cercato di riemergere, aggrappandomi ai detriti. Chi è morto? Chi è morto?
Mi sono aggrappata lamentandomi ai detriti che mi portavano alla deriva, tra trombe d’aria e grandine.
Ho tastato una pipa di legno, che galleggiava imperterrita contro corrente
una pelliccia di un gran piccolo vecchio giovane cane, il cui cuore batteva e scalpitava ancora, per forza divina, vivace per la vita e per le scelte che aveva fatto, per chi aveva amato … e lui aveva solamente amato
una sciarpa rossa, odore di donna
… Sto sognando. Sì … La malattia non mi fa capire. I sensi sono distrutti. Non sento la mia pelle, un ammasso di nervi immersi in quella nera marea. Il sonno mi ha intorpidito gli occhi e mi tappa il naso. Il gusto è stato ingolfato da quello risciacquo di mondo, che lotta lasciando vittime su vittime.
Posso usare solo l’udito. E sento un urlo in questo mio sogno che mi fa capire che non era un sogno.
Un lunghissimo saluto apre i miei occhi. Un saluto urlato al vento, con rabbia, per la separazione, ma per irruenza per il volere di ricongiungersi. Un grido di forza e di lotta. Un urlo d’amore.
C’è un nuovo urlo,un pianto, che chiede giustizia, che chiede di non dimenticare. Anche questo ha rabbia. Anche questo lotta. Questo ha subito un torto, ma sento che c’è pur sempre l’amore in questo urlo.
Ci sono persone che ancora sorridono in questo mondo
E ci sono ancora cani che adottano gli uomini.
Urlo rosso un saluto al vento e non dimentico mai.

Mete irraggiunte: Poesia. Autore: Giacomo D’Avanzo

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Mete irraggiunte*

Osservando di un albero le foglie
dando a esse un vocabolo ad una ad una,
la testa sollevandosi dal foglio
comincia a scorgere in un ramo
una forma diversa delle parole.
Le stagioni in avanti passavano
e quel ramo da quello strano sapore
stava lì così fermo e contemplativo
il cielo indicando
la meta irraggiunta di tutte le foglie,
eppure così semplice da raggiungere con lo sguardo.
Poi torno al foglio
e lo vedo già impregnato di parole,
forse la mano
già da sola ha scritto.
Contemplo indicando le frasi con la punta della penna
la meta irraggiunta del mio essere.

Giacomo D’Avanzo

*Nota: la parola “irraggiunto” non esiste, significa “irraggiungibile”

Roccia, soffi e canto: Poesia. Autore: Giacomo D’Avanzo

Odissea_Ulisse e le Sirene (Herbert James Draper-1909)

Roccia, soffi e canto

Allora in me furono mille soffi
che s’abbattevano nelle mie vene
come viver un impetuoso vento
e così l’anima delle mie vele
bruciava per ogni mio pensiero
sembrava integrarsi con aria e vento
par che la natura di questo giorno
voglia inevitabilmente naufragare
nello scoglio del canto di una sirena
ma è sordo il legno di una nave
che vuol esser tutt’uno con la roccia
la fuliggine del velo nel canto
Io, solo polvere e macerie
Lei, solo roccia, soffi e canto.

Giacomo D’Avanzo

Il professore di storia: Racconto. Autrice: Concetta Mirabella

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Il professore di storia

Apparve all’improvviso tra tante persone, era un professore di storia.
Capelli bianchi, barba ben curata, occhiali per vedere “meglio”…
“Impossibile guardare attraverso la nebbia dell’incertezza”, pensava.
Probabilmente ogni storia per lui era certezza assoluta , dogma a cui affidarsi per non perdere la rotta, come una bussola che indica sempre in che direzione andare.
Mentre lo guardavo, lui aveva le braccia chiuse a difesa, ricordavo il mio professore di storia.
Entrambe persone pulite, oneste, coerenti, dove ogni cosa ha il suo posto, dove nulla è dovuto al caso.
Gli studi approfonditi di biografie, di eventi, di azioni, non avevano mai insinuato in loro il dubbio:
“non tutto è come ciò che appare”, “nulla può essere per sempre allo stesso modo”….
Il suo eroe preferito era Napoleone: “due volte nella polvere, due volte sull’altare “…..
Mentre era assorto nei suoi pensieri, con la mente si allontanava per sentieri sicuri,
chiuse il quaderno, chiuse le mani intrecciando le dita e appoggiando la fronte perplessa,
si chiedeva : ” come fare? come è possibile inventare”?
All’improvviso suonò il suo orologio a cucù da polso,
– solo tre cinguettii –
Guardò stupito il suo orologio, erano le 22, eppure solo tre cinguettii,
per la prima volta non indicava l’ora esatta.
La sua grande passione per la precisione gli aveva fatto nascere l’hobby di costruire orologi a cucù di legno,
colorati, ognuno con un suono diverso, ma tutti all’unisono, al tocco del campanone trillavano,
sembrava un bosco.
Ma i suoi veri capolavori erano gli orologi da polso a cucù, vera arte della precisione miniaturistica,
rari gioielli di cui era orgogliosissimo, sempre precisi.
Questa volta, no.
Questo strano evento gli creava ansia, decise di uscire dal corso di scrittura per tornare a casa,
voleva controllare subito se anche gli altri orologi non segnavano l’ora esatta.
Corse per la salita di via Del Comune, arrivò all’ Arco Dei Rossi, velocemente si trovò in Piazza Salimbeni.
Certo era strano, dal buio della sera era passato alla luce pomeridiana, una luce cupa,
un cielo da venerdì santo,
nuvole nere spostate velocemente dal vento, facevano apparire raramente nuvole bianche.
Non era normale, forse stava sognando, due mondi paralleli : notte e giorno.
Così frastornato arrivò nella piazza, alzò gli occhi al cielo e guardò verso i volti severi dei saggi, gli antichi imperatori romani di palazzo Spannocchi, rassicuranti come sempre, ma questa volta era cambiato qualcosa, due volti si erano sgretolati e cadevano a pezzi, si girò di scatto verso Sallustio e una crepa squarciava l’abito talare, si sentì raggelare, la terra tremare sotto i piedi, un nodo alla gola lo soffocava, all’improvviso iniziò a correre, non più verso casa, ma verso Piazza del Campo.
Non capiva più nulla, correva tra la folla urtando contro tutti, sudava freddo, non respirava, arrivò in piazza in un lampo……..
Quando la vide pensò : Ah! Eccola!
Come sempre la dolce conchiglia lo abbracciava.
Il tufo disteso sull’anello della piazza lo faceva sentire a casa.
Ma questa sensazione durò poco, la confusione e l’angoscia aumentarono,
non era possibile tutto ciò, non era luglio!
Non capiva più niente, la sua storia, la sua vita, i suoi orologi, tutto preciso, tutto lineare, senza mai un intoppo, ora non più.
Frastornato risalì Banchi di Sopra e ritornò in piazza Salimbeni, i volti erano crollati tutti, si sedette disperato sulle macerie di Sallustio Bandini, le lacrime gli rigavano il viso, sciolse la sua elegante pochette blu a pois bianchi e le asciugò.
Un raggio di sole aprì un varco in quel cielo plumbeo, lo riscaldò.
Un bambino impaurito si stringeva alla mamma, guardava le macerie, tra le mani stringeva una scatola grandissima, quasi non la reggeva,
lui la fissò e vide che era un puzzle del Buon Governo del Lorenzetti.
Un sorriso nacque sulle sue labbra.

Concetta Mirabella

A un amico: Lettere. Autore: Giacomo D’Avanzo

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A un amico

 

 Riposa in pace, amico mio, riposa in pace. Come un belva veloce è giunta la tua morte, ora per te compagno è tutto finito, niente più lotta, niente più canti, niente più urla e nemmeno la gioia di vedere tuo figlio bambino. Così muori, caro amico, lasciando ancora più soli noi in questa battaglia, che ha un peso infinito, che non avrai mai fine. Tu che per la giustizia hai dato la vita lasciando perdere tempo, svago e amore. Tu hai regalato questo tuo tempo a noi, a noi tutti e a quelli che verranno dopo di noi. Ora tu giaci morto senza che né una spada né un morbo ti siano venuti ad ammazzare, ma solo per la debolezza del tuo tenero cuore che dopo tante fatiche ti ha stramazzato. Ora caro, caro amico mio, continui a vivere, qui nell’aria, e nella vita continuerai a far sempre parte. La tua carne diventerà un fiore e le tue ossa un albero, io tuoi capelli, dispersi nella polvere, polline. Così ti ricorderemo, non solo come uomo, ma come la natura stessa. Mai perderemo un momento per conoscerti ancora, per scoprirti basterà aprire le finestre e respirare l’aria che tu stesso hai respirato e che continui a respirare in infinite forme di vita, tra cui le piante che respireranno con te, per te.

Passeggiare non esiste: Poesia. Autore: Giacomo D’Avanzo

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 Passeggiare non esiste

Strade, quale è il loro triste significato? Nel momento in cui le passi senza nemmeno accorgetene dei suoi colori. La voglia di camminare che non ci è mai arrivata., stando fermi a guardare i palazzi forse, semmai andando dritti per raggiungerli per un momento, e così un altro ancora, fino a quando le strade saranno solo un nome forse, un intermezzo noioso, il solito passatempo millenario per i piedi tra le miriadi di cose da fare. Perciò mi vien da chiedere in questa immensa desolazione, forse dovuta dalla noia del cielo azzurro o per il freddo e la pioggia copiosa, “Hai mai guardato un uomo, un uomo che cammina?”, io no, non l’ho visto, ho visto solo uomini che “stavano andando a fare.”.

Il Cappotto arancione 1 e Il Cappotto arancione 2: Racconto. Autrice: Concetta Mirabella

 

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Vendita-confessione . primo esercizio. Concetta Mirabella

IL CAPPOTTO ARANCIONE 1

 

Vorrei sapere perché ti tengo ancora con me.

Ti ho comprato quando pesavo 45 chili ed ora peso 75 chili: il ricordo.

Mah! Certe volte questi ricordi pesano quintali e sono ingombranti più di montagne mai scalate.

Me l’ha regalato mia madre prima del lieto evento, forse per questo non mi decido a venderlo,

ho fatto ben 5 traslochi da allora e nonostante 2 gravidanze e 30 chili in più, me lo trascino sempre dietro.

Forse lo tengo a futura memoria, affinchè l’umanità non ripeta più gli stessi errori e non subisca più le stesse atrocità, come i lager, come Auschwitz.

Oppure lo tengo come una lapide del 25 aprile, con su scritto i nomi dei caduti per la libertà,

ma su questa, all’angolo di Piazzetta Bagnoli a Napoli, c’è scritto un solo nome : il mio.

Oppure lo espongo come cimelio e su ci scrivo il nome, non di una persona morta, ma quello di una donna che ha preso coscienza e consapevolezza che il proprio giardino interiore, pieno di fresie profumate, di violette colorate e di papaveri rossi, non può essere calpestato da chiunque passi lì, ed inventa di volerlo coltivare insieme.

Lo guardo, lo prendo, lo porto nel negozio di abiti…. VINTAGE…. fa più effetto chiamarlo così

che roba vecchia da buttare, mi sembra più degna sepoltura, lo vendo, appena 10 euro,

eppure valeva molto di più.

Mi sento ricca…..vado da Grom e mi compro un super gelato al cioccolato con super panna doppia.

Che goduria…..LA LIBERTA’…..

 

Vendita-confessione. secondo esercizio. Concetta Mirabella

IL CAPPOTTO ARANCIONE 2
Vorrei sapere perché l’ha comprato.
Un regalo della madre per il matrimonio.
Mi sono sentito subito tradito quando l’ho visto la prima volta.
Ogni volta che l’ho visto nell’armadio, ho pensato :” perché non lo vende”?
Ho sposato una piuma di 45 chili, ma dopo 5 anni di matrimonio, 2 gravidanze,
mi sono ritrovato una donna cannone di 75 chili .
Ogni volta che l’ho visto ho pensato: “da una hippy si è trasformata in una
mamma americana anni 60”.
Ogni volta che l’ha indossato, mi sono sentito costretto in un ruolo non mio,
chiuso in un lager.
Ogni volta, stava là appeso, come simbolo di una memoria tradita, ho cercato
La liberazione, ma il mio 25 aprile, non arrivava mai!
Ora sono qua sul divano, mi rollo una sigaretta con l’ottimo tabacco regalato da
mia madre, ascolto Peter Gabriel, assaporo la vittoria :
L’HA VENDUTO.
L’odore della migliore parmigiana del mondo, invade la casa, mia madre mi chiama,
è pronta la cena……
Che goduria……LA MAMMA !!

LA FAVOLA DI MATTEO: Racconto. Autrice: Claudia Bartalini

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LA FAVOLA DI MATTEO

C’era una volta, in un regno incantato, un re e una regina. Erano giovani, felici, sapevano amministrare con giustizia e avevano un figlio bellissimo. Ma, cari lettori, la nostra storia inizia qualche anno prima, il giorno in cui i due si conobbero per la prima volta.
Eleonora aveva incontrato Riccardo all’età di dodici anni, si era persa nel bosco, povera piccola e ricordo che piangeva quella volta.
Lui era alto, biondo, con gli occhi chiari, la udii piangere e così la cercò tra gli alberi neri. Quando la trovò, le sorrise e lei, timidissima, diventò di un rossore tale, che mi ricordò un pomodoro maturo. Riccardo le tese la mano, che lei afferrò titubante, per aiutarla ad alzarsi; la accompagnò fuori da quel labirinto di piante scure e guardandola negli occhi disse: “Io sono Riccardo, tu come ti chiami?”.
Eleonora non seppe rispondere, la sua timidezza vinse ancora e così scappò da quel bellissimo ragazzo per rifugiarsi nella sua tana.
La sua tana era un meraviglioso castello, tutto rosa e viola chiaro. Aveva una stanza da letto enorme, con un armadio a dieci ante bianco come lo zucchero filato e un letto a baldacchino rosso bordeaux.
Era piccola, ma sarebbe cresciuta in fretta; all’età di venti anni avrebbe scoperto di essere già promessa sposa e indovinate di chi? Sì, il principe Riccardo, figlio del re Leonardo, sovrano del regno adiacente al regno di re Alessandro, il padre della nostra principessina Eleonora. Potete immaginare la sua felicità, le nozze si svolsero con grandi festeggiamenti che durarono giorni e giorni. I due erano perfetti l’uno per l’altra e seppero governare con giustizia e armonia. Il popolo li adorava. Ma la vera felicità dei due arrivò quando la regina Eleonora si accorse di essere incinta.
Nacque un bel maschietto e decisero di chiamarlo Matteo.
Matteo crebbe con l’amore dei suoi genitori che lo viziarono come un sultano. Nella sua stanza aveva un sacco di fucili, gli piaceva cacciare e una stanza del palazzo fu riservata ai suoi attrezzi da palestra.
All’età di ventidue anni era già un bestione, con muscoli ovunque, anche dove non batte il sole, era il sogno di ogni ragazza del regno.
Ma nessuna di loro era mai riuscita a fare breccia nel suo cuore.
Matteo era amato da tutti, aveva un bel fisico e ogni volta che andava a caccia tornava con una preda catturata.
Tutto per lui era perfetto, ma non era felice, gli mancava qualcosa, una donna forse.
Decise di partire, voleva andare in cerca di qualcosa che riuscisse a riempire il vuoto nero dentro di lui.
Partì il dodici Aprile di quell’anno lontano, in sella al suo cavallo nero. Il suo Reginald era un purosangue di razza araba, correva più veloce del vento ed aveva un’ andatura elegante. Tra lui e il nostro principe c’era un intesa particolare che li teneva uniti anche nelle impervie.
Viaggiarono per giorni, cavalcando di giorno e accampandosi di notte. Superarono un deserto arido e una valle profumata, si fermarono per ripararsi dalla pioggia violenta e per lasciarsi cullare dal vento fresco. Poi arrivò in quel piccolo paesino chiamato “profumo di rosa” dove si fermò per rifocillarsi.
Era il ventuno Aprile, il primo giorno di primavera e prima di entrare nella taverna, Matteo vide una rondine attraversare il cielo velocemente. Sorrise a quella vista magnifica e con quel suo sorriso sognante entrò nella taverna.
Fu lì che capì quello che cercava, era lei, era lei che aveva sempre sognato.
La cameriera era bassina, con i capelli castani, spettinati, due occhi marroni come il cioccolato al latte e le labbra incatenate in un sorriso irresistibile.
– Cosa ti porto? –
Matteo rimase estasiato da quella voce soffice come un cuscino di piume.
– Un risotto con il tonno, senz’olio, grazie. –
Lei lo guardò, sembrava preoccupata, mi ricordo quella sua espressione sulla faccia, mi stupì un sacco, era la prima a preoccuparsi della salute del principe.
Anche Matteo se ne accorse e cominciò a chiedersi se non fosse veramente lei la sua metà. Ma nemmeno lei riusciva a riempire quel vuoto dentro lui.
La cameriera tornò con il risotto e sorrise nuovamente al principe.
– Non sarà un po’ poco per te? Con tutta quella massa muscolare che hai, dovresti mangiare qualcosa di più nutriente. –
Lei appoggiò il piatto tra le mani di Matteo, sfiorandole appena.
Lui colse l’attimo e, dolcemente, fermò la mano di lei nella sua.
Lei lo guardò dritto nei suoi occhi verdi, con uno sguardo penetrante come un proiettile, lui arrossì, addolcendo la sua faccia e liberando un timido sorriso.
Lei si sedette sulla sedia accanto a lui e si presentò.
– Mi chiamo Claudia. Posso sapere il tuo nome? –
Era educata e aggraziata ma anche forte e sicura di sé.
– Matteo, lieto di fare la tua conoscenza! –
C’ero anche io lì, in un angolino della taverna a spiare quella scena dolcissima.
Lei arrossì e posò l’altra mano su quella di Matteo, lui trovò coraggio in quel piccolo gesto e baciò Claudia.
Per loro il tempo si fermò a quel bacio, li legò in maniera irreversibile.
Un mese dopo, lui le chiese di diventare la sua fidanzata e lei accettò di buon gusto.
Lei era una scrittrice, parlava in modo chiaro e usava sempre un sacco di sinonimi e concetti astratti per spiegare sempre ciò che diceva.
Lui si allenava spesso, con i pesi e con la panca.
Lei era piccolina, lui era un gigante a confronto ma si amavano e questo li rendeva inseparabili.
Un anno dopo, lui le chiese di sposarlo, lei era entusiasta ma non disse di sì, esclamò:
– Pensavi di aspettare ancora molto? –
Lei era simpatica riusciva sempre a far ridere il suo principe che proprio per questo motivo aveva perso la testa per lei.
Tornarono al castello di re Riccardo per preparare le nozze, ma lui non c’era più.
Quando Matteo entrò nel castello, non c’era suo padre ad aspettarlo, ma solo sua madre con gli occhi rossi e il fazzoletto in mano.
Riccardo si era ammalato di un virus che lo aveva portato alla morte e purtroppo, anche la madre ne era affetta. Sarebbero passati pochi giorni prima che lei morisse.
Dopo la morte di entrambi i re, Matteo divenne re di quell’immenso regno. C’era solo una ragazza che voleva come regina, così la cerimonia per l’incoronazione del re e della regina finì con il matrimonio dei due, acclamato da tutto il popolo.
Lui, come regalo di nozze, le regalò un cucciolo di cane.
Lei, invece, gli regalò un pianoforte.
Matteo non aveva mai visto tale oggetto ma sembrava che avesse sempre saputo che esistesse.
Si sedette, posò le sue mani sui tasti bianchi ed esclamò:
– Raccontami qualcosa. –
Si conoscevano bene, si capivano con un solo sguardo e lei intuì subito il significato della sua affermazione.
– Una notte, buia e tempestosa, con lampi gialli che squarciano il cielo e un vento tanto forte da spezzare le querce. La pioggia cade a gocce grandi come palle da golf. E la grandine picchia come un martello su un chiodo. –
A quelle parole lui chiuse gli occhi e cominciò a battere su quei tasti, creando una sinfonia stupenda.
Claudia era estasiata.
Matteo era riuscito a riempire il vuoto nero dentro di sé.
Qualche anno dopo arrivò anche il loro primogenito, il primo di una lunga serie. Ah, stavo per dimenticarmi, il cane lo chiamarono Lucky.
E vissero per sempre felici e contenti.

FINE

LittleCrazyB.